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Negli ultimi 20 anni, la fine della globalizzazione è stata annunciata molte volte: dopo il voto della Brexit, in occasione della prima vittoria elettorale di Trump, durante la pandemia e dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
Perché alcuni Paesi sono ricchi e altri rimangono poveri? È una domanda che è sempre stata centrale nelle scienze sociali e in economia.
Il recente rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell'Unione Europea ha segnato un passaggio centrale per il futuro politico ed economico dell’area.
Storicamente, il mese di agosto è particolarmente vulnerabile a brutte perturbazioni sui mercati finanziari. È stato così, per fare qualche esempio, nel 1998 con il default della Russia e nel 2007 con l’inizio della crisi dei subprime negli Usa.
Negli ultimi anni, l’Europa si è trovata sempre più stretta nella morsa di Stati Uniti e Cina, due giganti economici intenti a sfidarsi nella corsa alla supremazia economica mondiale.
Accumulare oro per sentirsi al sicuro è una pratica che risale alla notte dei tempi, un rituale antico quanto la storia stessa.
I mercati in queste settimane guardano verso nuovi orizzonti. Il loro sguardo è rivolto in maniera crescente verso l’India, Paese che con i suoi 1,4 miliardi di abitanti si è da poco guadagnato il titolo di democrazia più popolosa al mondo.
Il mondo economico è attualmente immerso nella ricerca spasmodica di segnali di crescita ma esistono anche altri dati cruciali che non devono essere trascurati. Tra questi ci sono i numeri sui debiti pubblici.
Con il suo leggendario “Whatever it takes”, Mario Draghi è considerato il salvatore dell'euro. La promessa dell'allora Presidente della Banca Centrale Europea di fare tutto il necessario per preservare la moneta unica ha segnato la svolta nella crisi del debito europeo nel 2012.
Trenta minuti di treno separano l’Europa dall’Africa. È il percorso dell’enorme tunnel ferroviario sottomarino che, attraverso un tratto lungo lo Stretto di Gibilterra, potrebbe presto collegare la costa della Spagna con quella del Marocco.
Nuove politiche per nuove tecnologie. L’anno che si è appena aperto potrebbe portare a nuove opportunità e la speranza è di un allentamento delle tensioni esistenti. Di sicuro, le innovazioni tecnologiche emergenti, come l’Intelligenza Artificiale, giocheranno un ruolo centrale nel 2024. A patto però che si rivelino un alleato anziché un nemico per la società.
Il clima della Terra continua a macinare record. Non si tratta però di primati positivi bensì di trend negativi: lo scorso 17 novembre di quest’anno, per la prima volta, la temperatura media del pianeta ha superato i due gradi al di sopra dei livelli dell’epoca preindustriale.
La geopolitica si è trasformata in un vento che soffia forte sui mercati finanziari. Un vento che ha iniziato a farsi sentire con la Brexit, ha mostrato il proprio influsso con l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, ed è diventato impetuoso con l’esplosione della pandemia di Covid-19.
La debolezza della Germania, motore dell’economia in Europa e primo partner commerciale e produttivo dell’Italia, è sotto la lente dei mercati. Gli operatori aspettano impazienti i segnali di una ripartenza ma il timore è che il Paese sia arrivato al capolinea del suo modello di sviluppo. La preoccupazione è grande.
«I mali della Cina non si fermano in Cina, ma si riverberano inesorabilmente nel resto dell’economia globale interconnessa» è la sintesi di quanto scritto di recente dall’Economist. L’autorevole settimanale britannico in una lunga analisi ha messo in luce le principali conseguenze globali del rallentamento della seconda economia al mondo.
Nei secoli l’innovazione tecnologica ha sempre plasmato in maniera significativa anche le dinamiche della geopolitica. Basti pensare ai progressi nel XV secolo nella progettazione delle navi e l’introduzione di velieri più veloci e maneggevoli, come le caravelle e le caracche, che hanno reso possibile la navigazione oceanica su lunghe distanze e portato alla formazione di nuovi Imperi.
Gli occhi degli operatori sono puntati sulle nuove prove che l’Europa si trova ad affrontare. La prova maggiore arriva direttamente dall'IRA, Inflation Reduction Act, programma lanciato dal Presidente Joe Biden.
C’è un’importante classifica che va riscritta: nei giorni scorsi l’India è diventata la Nazione con più abitanti al mondo. I numeri esatti sono difficili da rilevare, ma secondo i calcoli dell’Onu, in aprile, il Paese ha superato quota 1,425 miliardi di individui.
Negli ultimi anni il mondo ha vissuto profondi cambiamenti. Pandemia, guerra, crisi energetica e ambientale hanno prodotto effetti sconvolgenti che si sono intrecciati tra loro e che adesso sono alla base di ulteriori trasformazioni.
Se ne parla ormai in tutti i contesti e in ogni tipo di conversazione. Da quando a fine novembre è stato presentato, ChatGPT si è diffuso come un virus.
Inflazione, guerra, crisi energetica: il 2022 è stato un anno molto complicato per l’economia e per i mercati finanziari.
I mercati finanziari non trovano pace. A complicare il quadro di un anno già molto difficile si sono aggiunti anche gli scandali nel mondo delle criptovalute.
Tutta la tecnologia che per noi oggi è diventata insostituibile ha il proprio cuore nei chip di silicio. È in questi minuscoli circuiti che avviene l’effettiva elaborazione dei dati che è alla base della prosperità economica del nostro mondo. E molto probabilmente è sul terreno dei chip che nei prossimi anni arriverà la resa dei conti finale tra Stati Uniti e Cina.
Gli anni difficili della pandemia hanno messo a dura prova l’economia e i mercati di tutto il mondo. Come non bastasse, a rendere più difficile il quadro sono intervenuti gli effetti della guerra in Ucraina e quelli di un’inflazione che ha raggiunto livelli che non si vedevano da 40 anni.
La sfida tra potenze globali adesso passa per il clima. Anche in questa direzione guarda infatti il pacchetto da 370 miliardi di dollari lanciato nelle scorse settimane dal presidente americano Joe Biden.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato in Europa gli orrori della guerra. Il conflitto potrebbe però accelerare i processi di innovazione che erano già in corso in Europa.
Da qualche mese i mercati stanno affrontando venti contrari. Le incognite sono tante ma a prendere il sopravvento sono state soprattutto le preoccupazioni sull’inflazione e sull’accelerazione nel processo di aumento dei tassi d’interesse da parte delle Banche centrali.
All’inizio i cambiamenti, sia quelli di natura sociale, sia quelli geopolitici, si esprimono in maniera sotterranea e poco visibile. È solo quando emergono in superficie che si vedono davvero a pieno, insieme agli shock che spesso li accompagnano.
L’aggressione della Russia all’Ucraina ha messo in chiaro una cosa: l’Europa deve ridefinire al più presto il proprio concetto di sicurezza. Per questo motivo, sulla spinta degli eventi drammatici che si stanno susseguendo a pochi chilometri dai confini dell’Unione, i leader europei stanno ragionando su una nuova natura della sicurezza europea.
I mercati, si sa, amano adagiarsi su ritmi monotoni e ben decifrabili. Calibrano ogni rischio, valutano gli scenari più probabili, e sulla base di queste analisi decidono le operazioni da fare.
Se il 2021 è stato l’anno del dibattito sulla sostenibilità e dell’accelerazione sulla transizione ecologica, nel 2022 si passerà più concretamente ai fatti.
Si avvicina la fine dell’anno e gli occhi sono puntati sulle sfide all’orizzonte. Per l’Italia in primo piano c’è sicuramente la partita del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Sempre più veloce, sempre più in alto. Per decenni la Cina ha spinto con forza sull’acceleratore di una crescita economica boom, un traguardo da raggiungere a ogni costo e senza guardare ai sacrifici.
Dopo anni di stagnazione dei prezzi e tendenze parzialmente deflazionistiche, l’inflazione torna di colpo ad alzare la testa. Per le Banche centrali, questo improvviso andamento si sta trasformando in un nuovo grattacapo.
Mentre la pandemia continua a tenere il mondo con il fiato sospeso, lo sguardo degli operatori si sposta via via sempre di più sui temi dell’autunno. Tante sono le incognite, ma all’orizzonte si sta profilando anche un nuovo trend che presenta una dinamica ancora poco esplorata. Parliamo dei prezzi delle materie prime.
La pausa estiva è sempre motivo di allerta per operatori e investitori. Negli ultimi tempi i mesi più caldi dell’anno sono stati tutt’altro che un’occasione di riposo per le Borse. Solo per fare qualche esempio, la crisi dei subprime del 2008 ha mandato all’aria le ferie di molti money manager in tutto il mondo. Altrettanto è successo nel 2011 con i guai sui debiti sovrani.
La pandemia causata dal Covid-19 ha impresso grandi cambiamenti e ha portato a profonde trasformazioni che segneranno il futuro di tutti noi.
Ogni volta che un neo presidente sale alla Casa Bianca esaminano con attenzione tutta la serie di segnali utili a definire quello che sarà il futuro dell’economia e dei mercati. Nei suoi primi tre mesi di presidenza Joe Biden ha offerto risposte innovative e molto ambiziose, mostrando chiaramente l’impegno nel voler dare un grande slancio riformatore al Paese. A beneficiarne saranno anche i mercati globali.
Dopo una decina di anni in cui non dava più notizie di sé, l’inflazione torna di nuovo a rappresentare un motivo di preoccupazione. Molti esperti sono convinti che, non appena l’economia avrà nuovamente ripreso a girare a pieno regime, scatterà anche una corsa dei prezzi e a velocità che non si vedevano da tempo.
Se l’Italia fosse un’azienda, Mario Draghi verrebbe definito un turnaround manager, uno di quei dirigenti chiamati nei momenti di crisi a ristrutturare in fretta e furia i conti, rimettere mano ai piani di costi e per rilanciare il business. Il momento per l’Italia è di difficoltà e la pandemia rischia di peggiorare un quadro già complicato.
L’era di Joe Biden è partita con una cerimonia di insediamento senza precedenti nella storia degli Stati Uniti. Per la prima volta all’evento non si sono viste le folle che ogni volta accorrono da tutto il Paese per salutare il nuovo presidente, né si è vista la parata lungo Pennsylvania Avenue a Washington.
Non scorderemo facilmente l’anno che sta per terminare. Segnato dalla pandemia e da una crisi economica senza precedenti, il 2020 resterà profondamente vivo nelle nostre memorie. Nonostante gli eventi negativi che si sono succeduti, l’ultimo scorcio dell’annus horrobilis del Coronavirus ha comunque portato qualche svolta positiva. E saranno proprio queste ultime novità a offrire un contributo per un 2021 meno avverso.
È ormai chiaro che Joe Biden sarà il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Il recente via al processo di transizione concesso dal Presidente uscente Trump, dopo settimane di resistenze, ha sicuramente accelerato il passaggio. Il candidato democratico entrerà alla Casa Bianca accompagnato dal suo mantra «Buy American» che andrà a rimpiazzare le parole «America First» che hanno marchiato i quattro anni di presidenza Trump.
Per qualche tempo relegato in secondo piano, il conflitto tra Stati Uniti e Cina rischia di irrompere nuovamente con forza sulla scena. A rimetterci sarebbe l’Europa, di nuovo vaso di coccio in mezzo a due giganti dell’economia. La lite, questa volta, è stata innescata dall’applicazione TikTok, che fa capo alla società cinese ByteDance.
Alla fine il grande salto in avanti per l’Europa è arrivato e, per dirla con le parole pronunciate da Angela Merkel, segnerà «l’inizio di una nuova era per l’Unione europea».
Per il Vecchio Continente si avvicina il momento delle decisioni. Dopo mesi di discussioni e incagli, a metà luglio (17 e 18) si terrà a Bruxelles il summit dei leader Ue. L’atteso appuntamento dovrebbe rendere più concreto il Recovery Fund, il fondo per la ripresa da 750-500 miliardi di euro voluto da Germania e Francia con l’obiettivo di risollevare le sorti dell’economia europea alle prese con l’emergenza Covid.
Lo sguardo degli operatori è nuovamente rivolto all’Asia. A poco più di quattro mesi dalla firma della fase uno dei trattati commerciali riemergono di nuovo le scaramucce tra Usa e Cina. Questa volta l’epicentro della disputa è Hong Kong, la nuova Berlino di quella che potrebbe diventare la cartina geografica della Guerra Fredda del nuovo Millennio.
I mercati finanziari, si sa, guardano sempre avanti. In questi giorni stanno già provando a immaginare come saranno i mesi che arriveranno dopo la fase più critica della pandemia. Se le notizie di marzo sui numeri tragici del Coronavirus avevano mandato in tilt le Borse, ora inizia a comparire un po’ di fiducia nel futuro dell’economia.
L’emergenza Coronavirus ha portato con sé anche un’inconsueta serie di violente oscillazioni sui mercati. Mai era successo che a picchi di rialzi, anche sopra al 10%, seguissero subito repentine ricadute di altrettanta entità.
L’irruzione del Coronavirus sulla scena globale ha costretto i mercati finanziari a una brusca penitenza. Reduci dall’euforia dei nuovi massimi, di colpo hanno dovuto piegare la testa al diluvio incontrollato delle vendite. In queste ore è difficile valutare a fondo l’evolvere del quadro.
L’inizio d’anno ha portato nuove paure sulla scena internazionale. Questa volta l’attenzione è stata catturata dalle notizie sul nuovo Coronavirus e sulla rapida diffusione dei contagi in molti Paesi. Il timore è che il virus, che è stato segnalato per la prima volta in dicembre in Cina nella popolosa città di Wuhan, possa trasformarsi in una pericolosa pandemia.
Guardare all’anno di Borsa che verrà è come cercare di indovinare che regalo ci attende sotto l’albero di Natale. Le aspettative, si sa, a volte sono destinate a fallire. Difficile dire con certezza che cosa accadrà sui mercati nel 2020. E’ però un esercizio che gli economisti ripetono puntualmente a ogni scadere del vecchio anno.
Le ultime settimane dell’anno riportano l’attenzione degli operatori sulla Brexit. Il conto alla rovescia per le elezioni politiche nel Regno Unito è iniziato (la chiamata alle urne è fissata per il 12 dicembre) e gli investitori si chiedono quali potranno essere gli effetti sui portafogli.
Le «Borse politiche» hanno sempre le gambe corte. È una delle tante massime cui guardano i money manager nel decidere le scelte da fare. Significa che gli eventi politici internazionali, anche se di rilievo, hanno solo un influsso passeggero sull’andamento dei listini che, invece, guardano ai numeri delle società quotate.
Le discussioni sul clima hanno dominato la scena globale in quest’ultima parte di settembre. La lotta ai cambiamenti climatici è ripartita dal summit dell’Onu a New York dove 66 Paesi, 102 città e 93 imprese si sono impegnati a raggiungere zero emissioni entro il 2050.
Gli investitori si preparano alla pausa estiva accompagnati da una raffica di notizie positive che hanno rasserenato il clima sui mercati, anche se non sono del tutto fugati i timori che il sereno possa lasciar spazio alle nuvole.
La guerra commerciale tra Usa e Cina continua a dominare l’andamento dei mercati. In particolare, il tweet di Donald Trump del 5 maggio scorso ha segnato una nuova escalation nella disputa che, ormai, dura da più di un anno. Probabilmente questo tweet troverà posto nei libri di storia.
Tiene da mesi gli investitori con il fiato sospeso. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina rimane un driver importante per i mercati finanziari.
In questi giorni di incertezza sugli esiti della Brexit e di timori per le elezioni europee alle porte, l’Europa è costretta a confrontarsi con un nuovo problema: quello della Via della Seta.
Nella famosa favola «Riccioli d’oro e i tre orsi», la piccola Riccioli d’oro, che si è introdotta di nascosto nella casa dei tre orsi, si serve della loro colazione pronta sulla tavola. Ha di fronte a sé tre piatti, li assaggia tutti e sceglie quello con la zuppa che «va bene», vale a dire quella né troppo calda, né troppo fredda.
Il mese di gennaio ha sorpreso con un ritorno alla calma sui mercati finanziari. Archiviati gli eccessi di vendite, che avevano agitato la fine del 2018, adesso gli operatori sembrano aver di nuovo ritrovato fiducia.
Che i mercati finanziari offrano sempre opportunità di guadagno è una convinzione di molti, messa a dura prova da un anno, il 2018, che sarà ricordato come uno dei più difficili del dopoguerra.
Gli ultimi mesi dell’anno sono dominati dal nervosismo sui listini globali. Le preoccupazioni che tengono in allerta gli operatori non sono poche e la gran parte di queste sarà centrale anche nel nuovo anno.
Il mese di ottobre solitamente in Borsa è il mese più difficile. Se si pensa a questo periodo, il ricordo va subito al grande crash di Wall Street del 1929 e al crollo dei listini del 1987. La statistica, inoltre, conferma che si tratta dei 30 giorni dei ribassi.
I mercati emergenti restano gli osservati speciali di quest’ultima parte dell’anno. Ma che cosa sta accadendo nelle aree ad alta crescita del mondo che, negli ultimi anni, hanno tanto attirato l’attenzione degli investitori?
«Le guerre commerciali sono giuste e sono facili da vincere». Con questo tweet, il Presidente Usa, Donald Trump, argomentava la sua crociata contro gli squilibri commerciali che pesano sull’economia americana. Era marzo e nelle parole dell’inquilino della Casa Bianca riecheggiava la disputa a colpi di dazi da sferrare su più fronti della cartina geografica.
I mercati sono arrivati al giro di boa dei primi sei mesi dell’anno con molte più incognite di quante ce ne fossero a gennaio. Le incertezze maggiori le ha generate il mondo della politica. Due sono i fronti sotto la lente: da un lato c’è il timore dell’escalation di una guerra commerciale globale minacciata dal presidente Usa, Donald Trump.
L’Italia è tornata sotto i riflettori. I difficili negoziati per la formazione del nuovo governo hanno fatto precipitare il Paese in un’inedita crisi politica e istituzionale.
Sui mercati il petrolio è tornato protagonista. Nelle ultime settimane il prezzo del greggio ha ripreso a rialzarsi. La sveglia è arrivata dopo un letargo che durava da diversi anni ormai e che aveva schiacciato le quotazioni in area 40-50 dollari.
I recenti annunci di Trump sull’introduzione di dazi commerciali hanno portato nuove incertezze sui mercati.
L’economia ha ripreso a marciare un po’ ovunque. Le Banche centrali continuano a immettere denaro a sostegno della crescita.
Non accade spesso che i movimenti sui mercati valutari attirino così grande attenzione come accaduto in queste ultime settimane. A tenere banco è l’eccessiva debolezza del dollaro che sta sollevando i timori di una possibile «guerra valutaria» in corso.
È in America che si giocano le ultime carte dell’anno per la crescita globale e per i mercati. In extremis, nell’ultima settimana che precede le festività natalizie, è arrivato il via libera alla tanto attesa riforma fiscale Usa.
Accanto al consueto divenire delle statistiche sull’economia uno dei temi dominanti in questa fase è l’evoluzione del quadro politico. In particolare sono da segnalare importanti passi in avanti per la riforma fiscale USA, fortemente voluta da Donald Trump.
Le dichiarazioni della Fed riguardanti la riunione del 19-20 settembre sono state lette come più accomodanti rispetto alle altre recenti comunicazioni della banca centrale.
La crescita rimane al di sopra del potenziale, in un intorno del 2,5%, grazie a consumi e investimenti. I recenti uragani causeranno volatilità ai dati trimestrali ma senza mutare il trend di fondo, sostenuto da elevati livelli di fiducia e dal mercato del lavoro.
I dati macroeconomici pubblicati di recente sono risultati meno positivi di quelli del mese precedente, ma comunque coerenti con un ritmo di crescita del 2.5% annuo.
Negli Stati Uniti, dal punto di vista macro non si segnalano novità rilevanti, fatta eccezione per l’ennesima lettura dell’inflazione al di sotto delle attese. Sul fronte politico la testimonianza dell'ex direttore del FBI Comey davanti al Senato si è rivelata meno compromettente per Trump di quanto potenzialmente avrebbe potuto essere.
La riunione della FED di aprile ha lasciato i tassi invariati indicando fiducia nell'outlook economico, attribuendo alla debolezza del primo trimestre solo un effetto temporaneo, con il trend di crescita dei consumi che rimane solido.
I dati macro faticano a tenere il passo dell’ottimismo segnalato dagli indicatori stimati attraverso sondaggi. Nello specifico, l’inflazione risulta leggermente al di sotto del consenso e in ribasso rispetto ai massimi registrati recentemente.
I due eventi più importanti delle ultime settimane sono stati la riunione della BCE del 9 marzo e i dati sul mercato del lavoro USA. Negli Stati Uniti il mercato del lavoro rimane solido, con 235mila nuovi assunti e il tasso di disoccupazione al 4.7% (con l’aumento del tasso di partecipazione e delle paghe orarie).
Negli Sati Uniti nessuna novità di rilievo per quanto riguarda lo scenario economico: permane una certa distanza tra i livelli di fiducia (elevati) e l’attività economica (stabile), con i primi che recentemente si sono leggermente ridimensionati.
L’economia americana continua a fornire segnali di solidità. Recentemente le conferme sono venute dal mercato del lavoro e dalla fiducia degli imprenditori manifatturieri.
Lo stimolo fiscale promesso da Trump calerà su un’economia che già si trova in uno stato di piena occupazione. Questo fatto da solo, anche non considerando gli effetti di possibili misure protezionistiche o di riduzione degli immigrati illegali, dovrebbe portare a un surriscaldamento dell’economia e a una ripresa dei salari (già in trend positivo).
Con l’elezione di Trump la gestione della politica economica USA potrebbe segnare un punto di svolta epocale, con politiche fiscali marcatamente reflazionistiche, protezionismo e minor attivismo monetario.
Mercato del lavoro e indice ISM sono risultati sotto le attese, mettendo in forse, nel consenso di mercato, un’azione della FED entro l’anno.
L’esito del FOMC, decisamente dovish, ha contribuito alla traslazione verso il basso di tutta la curva dei Treasury. Non solo una significativa minoranza dei membri del direttivo si attende ora un unico rialzo per il 2016, ma anche le aspettative sui tassi del FOMC per il 2017 e 2018 sono state riviste al ribasso.
Dati americani stabili, anche se l’esito deludente delle ultime statistiche sui nuovi occupati ha portato il mercato ad escludere un rialzo dei tassi a giugno, eventualità che le ultime minute delle FED e alcuni dati recenti superiori alle attese (vendite al dettaglio, produzione industriale) avevano riportato all’attenzione degli operatori.
La recessione nel manifatturiero sembra giunta alle battute finali senza essersi propagata ai servizi. Ciò è avvenuto anche grazie alla tenuta del mercato del lavoro, dove i nuovi occupati mensili sono stati mediamente sopra le 200mila unità.
Nonostante il parere contrario di una serie di commentatori, i modelli a più fattori elaborati dalla FED non segnalano un elevato rischio recessione, visione coerente con l’assenza di squilibri particolarmente marcati nei conti del settore privato.
Il nostro scenario base è quello di un moderato ciclo di rialzo dei tassi da parte della FED (di entità minore di quanto desunto dalle minute della banca centrale, ma maggiore dell’aspettativa corrente di mercato) dato che il contesto di crescita e inflazione non dovrebbe essere tale da indurre ad azioni restrittive più marcate.
Accantonati i timori sulla stabilità dei mercati finanziari internazionali e sul ciclo degli emergenti la FED si è concentrata sulle dinamiche interne.
Le retail sales e la fiducia del settore immobiliare evidenziano la tenuta del settore domestico, mentre i dati regionali dei PMI mostrano la situazione di debolezza della manifattura.
Ottimo il dato sugli ordinativi dei beni durevoli (+2% rispetto al -0,4% di consenso e dato precedente rivisto ancora in rialzo). Rivisto il dato di GDP del secondo trimestre (+3,7% da 3,2% precedente).
I dati di maggio forniscono una lettura dello scenario USA leggermente più costruttiva, ma sempre in linea con le nostre attese. Il significativo rimbalzo delle vendite al dettaglio, in qualche modo auspicato data la tonicità del mercato del lavoro e i livelli elevati di fiducia dei consumatori, porta la stima della variazione del PIL del secondo trimestre in prossimità del 3%.
Il flusso di dati continua a deludere le attese. Archiviato il PIL del primo trimestre con una modesta contrazione dovremmo assistere ad un rimbalzo della crescita nel secondo trimestre dell’anno. Tuttavia l’entità sarà modesta perché dollaro debole e calo degli investimenti nel settore petrolifero non trovano nei consumi delle famiglie un’adeguata compensazione.
Il rimbalzo delle vendite al dettaglio a marzo dà credito all’ipotesi di consenso, condivisa dalla FED, che il rallentamento USA nel primo trimestre sia frutto di fattori transitori quali le tempeste di neve nel nord est quest’inverno e lo sciopero dei porti nell’ovest.
I progressi realizzati dal mercato del lavoro sono l’elemento più vitale dell’economia USA in questo inizio anno. I consumi a causa di una inspiegabile salita del tasso di risparmio non hanno risposto in maniera coerente.
Il ribasso del prezzo del petrolio stenta a manifestarsi in effetti positivi nei dati mensili sui consumi. Nulla cha abbia portato a rivedere lo scenario per il 2015, anche perché la fiducia delle famiglie è ai massimi post recessione, e la crescita dei posti di lavoro rimane ampiamente sopra le 200mila unità mensili.
Recentemente le statistiche sulla crescita hanno deluso le attese. Nulla che abbia portato a rivedere lo scenario per il 2015, ma indicazione che forse i tassi attuali di crescita del PIL al 3% possono eccedere il nuovo potenziale dell’economia americana nell’era post Grande Recessione.
Settimana ricca di dati nel complesso al di sotto delle attese, sia per quanto riguarda la crescita che l’inflazione. L’evento che però ha mosso maggiormente i mercati è stato l’esito del FOMC, l’ultimo dell’anno.
Per quanto concerne la crescita non vi sono novità di rilievo da segnalare: indicatori anticipatori e statistiche di economia reale sono concordi nel delineare un profilo di espansione del PIL per i prossimi trimestri in area 3%.
Come ogni prima settimana del mese i dati più rilevanti riguardano la fiducia degli imprenditori manifatturieri (ISM) e lo stato di salute del mercato del lavoro.
I dati economici americani hanno inequivocabilmente deluso le attese. Iniziando dal settimanale e quindi più volatile dato sui sussidi alla disoccupazione, per poi passare al secondo calo mensile consecutivo degli ordinativi di beni durevoli (che non getta una buona luce per gli investimenti di Q4) e terminare con le statistiche relative al consumi (in calo la fiducia e sotto le attese la spesa per ottobre).
Il dato più rilevante della settimana sono state le vendite al dettaglio risultate al di sopra delle attese.
Nessuna novità di rilievo per quanto riguarda la crescita, con gli indicatori anticipatori e le statistiche di economia reale concordi nel segnalare un’espansione del PIL in area 3%.
La violenta fase di avversione al rischio di questi giorni è dovuta in primo luogo ad un sentiment fortemente negativo sulle prospettive di crescita mondiali, incentrato soprattutto sull’Europa ma presto propagatosi a tutte le altre macro aree, fino a lambire gli Stati Uniti.
Grazie soprattutto alla tenuta degli USA la crescita globale quest’anno non scenderà molto rispetto a quella dello scorso anno, nonostante il rallentamento degli emergenti e le recenti delusioni delle aspettative nell’area euro.
Lo scenario americano attualmente presenta una lettura relativamente chiara: dal punto di vista della crescita, archiviati un pessimo primo trimestre e il rimbalzo nel secondo, l’economia nel terzo trimestre dovrebbe crescere in un intorno del 3% data la buona intonazione sia degli indicatori anticipatori che di quelli relativi ai consumi.
La settimana americana è stata densa di eventi. Dal lato della politica monetaria i commenti della FED allo scenario per crescita ed inflazione sono da considerarsi a nostro avviso leggermente più guardinghi del previsto, dato che si è riconosciuto come l’inflazione sia ora più vicina al target di riferimento, e che sia sceso di molto il rischio di deflazione.
Settimana molto “leggera” per quanto riguarda i dati macro, per cui vi è da segnalare unicamente il modesto arretramento della fiducia per le imprese di piccola e media dimensione.
Dopo la netta revisione al ribasso del PIL americano dei primi tre mesi dell’anno (-2,9% trimestre su trimestre annualizzato), i dati più recenti continuano a supportare la tesi di un rimbalzo nel secondo trimestre.
I dati della settimana non sono stati particolarmente informativi, dato che hanno confermato le tendenze già presenti nel recente passato.
Dai dati sempre molto attesi dai mercati riguardanti il mercato del lavoro sono giunte conferme circa il quadro congiunturale USA: la crescita occupazionale media mensile permane nell’intorno delle 200 mila unità, con un tasso di disoccupazione al 6,3% e un’accelerazione delle retribuzioni in area 2%.
L’inaspettata contrazione del PIL nel Q1 a causa del maltempo, unitamente ad una ripresa che non sembra eccezionalmente vigorosa, rendono difficilmente raggiungibile l’obiettivo del 3% di crescita media annua ipotizzato dalla banca centrale e dai mercati ad inizio anno.
Settimana molto densa per quanto riguarda le statistiche macro USA, anche se l’esito complessivo, almeno per quanto riguarda lo scenario sulla crescita economica non è stato tale da apportare variazioni allo scenario di riferimento.
Banche centrali alla ribalta in queste prime settimane di maggio. La FED ha mantenuto un tono accomodante, indicando che l’economia nel 2014 risulterà in accelerazione rispetto allo scorso anno, ma nel contempo evidenziando come siano presenti ancora sacche di debolezza nel mercato del lavoro e una certa moderazione nell’attività edilizia.
Banche centrali alla ribalta in queste prime settimane di maggio. La FED ha mantenuto un tono accomodante, indicando che l’economia nel 2014 risulterà in accelerazione rispetto allo scorso anno, ma nel contempo evidenziando come siano presenti ancora sacche di debolezza nel mercato del lavoro e una certa moderazione nell’attivitàm edilizia.
ISM e mercato del lavoro confermano un’economia in salute che al momento però non sta ingenerando pressioni sui salari e quindi sui prezzi. Il tema è importante in quanto, una volta accertato lo senario di crescita, per prevedere l’operato futuro della FED occorre verificare le pressioni inflazionistiche presenti nell’economia USA.
Settimana ricca di statistiche macro il cui esito conferma da un lato che il rallentamento di Q1 è attribuibile in buona parte all’effetto maltempo, dall’altro che il rimbalzo visibile nelle più recenti statistiche di sentiment, ma anche di economia reale, non è stato tale da compensare interamente (almeno per il momento) la caduta di attività dei mesi precedenti.
Settimana non particolarmente densa di statistiche macroeconomiche, e quelle divulgate non hanno aggiunto nulla alla descrizione dell’economia fatta nelle settimane scorse.
Notizie positive sono giunte dai consumi delle famiglie e dalla fiducia degli imprenditori manifatturieri, anche se quest’ultima non si è ripresa del tutto dallo shock dello scorso mese in buona parte imputabile al maltempo.
I dati sulle vendite di nuove abitazioni, sulla fiducia dei consumatori e quelli sugli ordinativi di beni durevoli sembrano confermare che il maltempo sia stato all’origine delle letture al ribasso dei dati sulla crescita dello scorso mese.
Un’altra statistica importante di gennaio, le vendite al dettaglio, ha deluso le attese. Anche in questo caso “il principale sospetto” sono state le avverse condizioni metereologiche verificatesi nel primo mese dell’anno sulla costa est.
Le due statistiche mensili più rilevanti, il sondaggio di fiducia sul settore manifatturiero ISM e quella relativa al numero di nuovi occupati hanno deluso le attese in misura significativa.
Come da attese la FED ha ridotto di altri 10 mld di dollari il ritmo di acquisto di obbligazioni sul mercato, proseguendo nel processo di assorbimento dello stimolo quantitativo, il cosiddetto “tapering”.
Il numero di statistiche macroeconomiche diffuse in settimana è stato di una certa entità, anche se una visione di sintesi dei numeri non porta a introdurre elementi di novità nello scenario delineato nelle scorse settimane.
A cavallo d’anno importanti dati di economia reale come le statistiche sui consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese hanno fatto registrare un’accelerazione tale da rendere altamente probabile una lettura del tasso di crescita atteso del PIL nel Q4 ’13 e nel Q1 ’14 in media al 3%, validando quelli che erano i segnali forniti dagli indicatori anticipatori e ribaditi in settimana dall’indice ISM manifatturiero.
Archiviato il terzo trimestre con un progresso del 4,1% (rispetto al trimestre precedente, dato annualizzato) l’anno dovrebbe chiudersi in tono minore, grazie al venir meno di parte dell’effetto scorte.
Dati misti per quanto riguarda gli Stati Uniti. Nel settore edilizio l’evidenza è stata favorevole alla visione di un proseguimento della fase di crescita dell’immobiliare, il cui contributo al PIL dovrebbe continuare ad essere positivo.
Settimana decisamente “povera” di dati macroeconomici. Le uniche statistiche di rilievo hanno riguardato la fiducia degli imprenditori nel comparto della piccola e media impresa e il dato settimanale (e quindi volatile) dei sussidi alla disoccupazione.
I dati di maggior interesse sono stati quelli relativi al PIL del terzo trimestre, risultato in accelerazione (2,8% trimestrale annualizzato) rispetto alla media del 2% a cui si è mossa l’economia americana da dopo la recessione e quelli relativi al mercato del lavoro.
Il tanto atteso accordo tra Democratici e Repubblicani è stato finalmente raggiunto, con una capitolazione di questi ultimi alle pressioni provenienti dal mondo degli affari e dalla maggioranza degli elettori.
Il dato più importante del periodo, quello relativo al mercato del lavoro, non è stato pubblicato a causa della chiusura degli uffici pubblici conseguente al mancato accordo sul budget federale.
In settimana l’esito delle statistiche economiche è risultato nel complesso al di sotto delle attese, sia per quanto riguarda gli indicatori di sentiment (preliminare PMI e fiducia dei consumatori) che per i numeri di economia reale (ordinativi di beni durevolei e redditi/consumi delle famiglie).
Rispetto allo scorso mese vi è stato un miglioramento nei principali indicatori anticipatori. Sono infatti ora in trend chiaramente ascendente l’indice ISM, la fiducia delle piccole-medie imprese ed il leading indicator.
L’esito dei dati diffusi in settimana è risultato misto, dato che le vendite al dettaglio hanno deluso le attese, e rafforzato l’aspettativa di una decelerazione del PIL in Q2 rispetto al Q1, il leading indicator non ha fatto registrare progressi, e per contro la fiducia del mercato immobiliare ha fatto registrare un nuovo massimo post recessione.
In una settimana non particolarmente ricca dal punto di vista dell’evidenza macro le parole della FED hanno ancora condizionato in misura significativa la dinamica dei mercati finanziari.
L’economia americana continua a fornire segnali incoraggianti. Il mercato immobiliare prosegue nel processo di lento e graduale miglioramento (476.000 case vendute in maggio), i redditi e la capacità di spesa sono cresciuti, sempre in maggio, dello 0,5% e dello 0,3% rispettivamente (contro tassi di crescita negativi del mese precedente), la fiducia dei consumatori fa segnare un nuovo massimo dal 2007, gli ordini di beni sono in progressione del 3,6%.
In settima è stato diffuso l’importante sondaggio sulla fiducia degli imprenditori manifatturiueri e le attesissime statistiche sul mercato del lavoro, punto di riferimento per i mercati circa l’operato della FED nei prossimi mesi.
L’economia americana continua a fornire segnali incoraggianti. Il mercato immobiliare prosegue nel processo di lento e graduale miglioramento (476k case vendute in maggio), i redditi e la capacità di spesa sono cresciuti sempre in maggio dello 0,5% e dello 0,3% rispettivamente (contro tassi di crescita negativi del mese precedente), la fiducia dei consumatori fa segnare un nuovo massimo dal 2007, gli ordini di beni sono in progressione del 3,6%.
Il tema del momento negli USA, ed anche sui mercati finanziari, è la possibilità o meno che la FED riduca il ritmo di acquisti di obbligazioni (QE3) già prima della fine dell’anno.
Con il passare dei mesi sembra che l’economia americana stia reggendo bene allo shock fiscale di inizio anno. Questo messaggio risulta avvalorato dalle numerose statistiche diffuse in settimana, in cui vi è stato un progresso sopra alle attese degli indicatori di fiducia della piccole e media impresa, del settore immobiliare e nella fiducia dei consumatori.
Negli Stati Uniti non sono state pubblicate statistiche macroeconomiche di rilievo, lasciando alla reportistica aziendale il compito di fornire nuove informazioni circa i fondamentali delle imprese USA.
Il contesto complessivo nel periodo di riferimento, non solo per gli USA, è quello di dati sulla crescita in linea se non al di sotto delle aspettative (uniche eccezioni un paio di statistiche europee e italiane e i dati giapponesi), inflazione in moderazione e ampio supporto delle banche centrali.
Nel complesso i dati della settimana sono risultati leggermente al di sotto delle attese, in particolare hanno deluso il leading indicator e l’indice di fiducia del settore immobiliare, che ha fatto registrare la terza contrazione consecutiva.
Sarà una coincidenza ma anche quest’anno l’avvio della primavera è coinciso con una serie di letture negative sugli indicatori di crescita. ISM manifatturiero e non, sussidi alla disoccupazione e mercato del lavoro hanno deluso le attese.
Il combinato disposto di nuova evidenza statistica e flusso di notizie inerenti la dinamica della stretta fiscale sta modificando le aspettative di consenso circa il profilo di crescita dell’economia USA.
Nel periodo di riferimento, per quanto riguarda l’economia reale abbiamo avuto indicazioni sulla dinamica dei consumi e degli investimenti, mentre per quanto riguarda i livelli di fiducia abbiamo avuto le letture di febbraio per l’ISM (settore manifatturiero) e la consumer confidence.
L’aumento delle tasse sul reddito deciso con l’accordo del 31 dicembre si sta manifestando in una moderazione dei consumi delle famiglie. Infatti, come mostra il grafico sopra riportato, dopo due solidi dati a novembre e dicembre, gennaio ha fatto registrare una decisa moderazione nella lettura delle vendite al dettaglio.
Settimana decisamente “leggera” per quanto riguarda i dati macro. Ne consegue che dal punto di vista dell’analisi di breve periodo non vi sono novità da segnalare. Con i dati di dicembre sull’occupazione, PIL e produttività possiamo confrontare i trend complessivi emersi nel 2012 rispetto a quanto osservatosi negli anni precedenti.
Inaspettatamente il PIL americano del quarto trimestre 2012 ha fatto registrare una contenutissima variazione negativa, (-0,1 trimestrale annualizzato), rispetto ad un consenso posizionato per una crescita in un intorno dell’1%.
In questa fase i driver della crescita americana, che rimane sempre modesta, sono essenzialmente di natura interna, e riconducibili alla ripresa del mercato immobiliare e alla tenuta dei consumi.
L’avvio d’anno si caratterizza per un miglioramento degli indicatori di fiducia a livello mondiale, come illustrato dal grafico, che mette in relazione la fiducia degli imprenditori manifatturieri e la dinamica del PIL mondiale.
I dati pubblicati questa settimana sono verosimilmente ancora influenzati dall’effetto dell’uragano Sandy, di natura più transitoria, e dal tema del fiscal cliff, che ci accompagnerà ancora per qualche mese.
La revisione al rialzo del PIL USA del terzo trimestre è stata quantitativamente significativa, (passando dal 2% trimestrale annualizzato al 2,7%) ma qualitativamente deludente in quanto dovuta a dati superiori alle precedenti stime per quanto riguarda scorte e consumi pubblici.
Settimana piuttosto leggera per quanto riguarda le statistiche macro e con l’esito delle medesime in parte alterato dai primi effetti dell’uragano Sandy. I sussidi alla disoccupazione e i sondaggi manifatturieri per le regioni di New York e Philadelphia hanno subito chiaramente l’effetto negativo dell’uragano.
L’esito delle elezione americane è risultato quello a cui i commentatori economici avevano attributo il numero maggiore di probabilità. Per l’Esecutivo rinnovo del mandato ad Obama e per il Legislativo bilanciamento di potere tra Democratici (vincitori al Senato) e Repubblicani (vincitori alla Camera).
Ciò che sta emergendo dai dati americani delle ultime settimane è un modesto miglioramento delle componenti domestiche della domanda, consumi, mercato immobiliare e fiducia dei consumatori a cui si accompagna una perdita di vigore del settore manifatturiero legata soprattutto al calo del commercio internazionale.
Settimana “leggera” per quanto riguarda le statistiche USA. Il livello di fiducia nella piccola media impresa è risultato leggermente al di sotto delle attese, si è assistito ad una significativa discesa nei sussidi alla disoccupazione e vi è stato un vistoso aumento nella fiducia dei consumatori.
Come al solito la prima settimana del mese contiene due tra le statistiche congiunturali più rilevanti per quanto riguarda l’economia USA: l’indice di fiducia del settore manifatturiero ISM e i dati sul mercato del lavoro.
Settimana molto ricca per quanto riguarda le statistiche americane, con dati anche significativamente divergenti tra di loro. Al considerevole balzo in avanti della fiducia dei consumatori e al calo dei sussidi alla disoccupazione si è contrapposta la peggior contrazione mensile (-13.2%) da quando è disponibile la serie storica degli ordinativi di beni durevoli.
La settimana non è stata povera di dati macro, con le statistiche sulla fiducia nel settore della piccola media impresa, la fiducia dei consumatori e le vendite al dettaglio.
Durante il mese di agosto il flusso di dati macro ha sostanzialmente riconfermato le tendenze presenti all’inizio dell’estate: l’economia americana continua a muoversi lungo un sentiero di crescita decisamente contenuto (intorno al 2%) sorretta in principal modo dalla dinamica dei consumi.
I dati negativi sulla bilancia commerciale per il mese di maggio sono stati la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, già colmo dopo le brutte sorprese su consumi e investimenti delle scorse settimane, e che ha portato alcune case di investimento a rivedere al ribasso le aspettative sulla crescita del secondo trimestre.
A inizio anno gli aspetti positivi dell’economia americana erano soprattutto da ricercarsi in una certa vitalità del settore manifatturiero (si veda il grafico sopra riportato) e in segali di stabilizzazione sul mercato immobiliare.
I dati di economia reale diffusi questa settimana contribuiscono ad affinare la previsione per il PIL del secondo trimestre che dovrebbe fare registrare un progresso contenuto dell’ordine del 2% trimestrale annualizzato.
Anche questa settimana i dati economici americani sono risultati nel complesso al di sotto delle attese, anche se l’entità delle delusione in molti casi non è stata particolarmente elevata.
Sia negli Stati Uniti che in Europa gli eventi più importanti della settimana sono stati i comitati di politica monetaria delle diverse banche centrali. In generale l’atteggiamento delle banche centrali occidentali (FED, BCE e BoE) sembra quello di non aver remore ad agire qualora il contesto dovesse ulteriormente peggiorare.
In settimana sono state rese note alcune tra le più importanti statistiche mensili, quelle relative al mercato del lavoro e quelle sulla fiducia degli imprenditori manifatturieri sintetizzata dall’indice ISM.
La settimana ha presentato ancora un insieme di statistiche contrastanti. Da un lato i dati sull’attività e fiducia nel settore immobiliare continuano delineare una ripresa nel settore epicentro della recessione del 2008, tanto che divengono sempre più concrete le aspettative di una inversione di tendenza nella dinamica al ribasso dei prezzi delle case (si veda il grafico sotto riportato); dall’altro si osserva un rallentamento, al margine, nella fiducia e nei dati relativi al settore manifatturiero.
Settimana povera di evidenze dal punto di vista macro. Il timore che anche per quest’anno vi sia la possibilità di vedere un rallentamento della crescita a partire dalla primavera, come già successo nel 2010 e soprattutto nel 2011, non ha trovato conferma nei dati recenti.
Nel corso delle ultime settimane sono state pubblicate alcune tra le più rilevanti statistiche mensili, come gli indici ISM manifatturiero e non, gli ordinativi di beni durevoli, i redditi e consumi personali di marzo e i dati sul mercato del lavoro.
Le ultime settimane sono state caratterizzate da un ritorno della volatilità sui mercati finanziari in buona parte riconducibile al riaffiorare dei problemi relativi ai debiti europei, ma anche a seguito di alcuni dati macroeconomici al di sotto delle attese negli USA.
Settimana ricca di statistiche macro, soprattutto per quanto riguarda l’economia reale. I dati sugli ordinativi di beni durevoli, dopo alcuni mesi di stagnazione sono risultati in progresso nella lettura di febbraio, rendendo verosimile un contributo positivo degli investimenti per il Q1.
I dati mensili sull’economia USA continuano ad essere moderatamente favorevoli, tanto che le case di investimento che si collocavano nella parte bassa della forchetta di consenso hanno rivisto leggermente al rialzo le stime per il primo trimestre a valori prossimi al 1,5% rispetto al precedente 1%.
Le statistiche macro più rilevanti della settimana sono state quelle relative al mercato del lavoro. L’esito del sondaggio è stato nel complesso favorevole, con una creazione di occupati superiore alle attese, revisioni al rialzo dei dati precedenti e tenuta del tasso di disoccupazione dopo i vistosi ribassi dei mesi scorsi.
Sia le statistiche di economia reale che i dati di sentiment diffusi in settimana sono risultati al di sotto delle attese in taluni casi anche in misura significativa. I dati di gennaio per investimenti e consumi descrivono un avvio del primo trimestre 2012 in sordina.
Nel complesso l’esito dei dati macro americani non è stato particolarmente positivo, dato che le statistiche, soprattutto quelle relative all’economia reale sono state leggermente al di sotto delle attese, come ad esempio i dati sulle vendite al dettaglio, la produzione industriale e i permessi all’edilizia.
In settimana non vi sono stati dati rilevanti per quanto riguarda gli Stati Uniti, fatta eccezione per il dato in calo della fiducia dei consumatori. Il mercato del lavoro USA Dopo l’esito sorprendente dei dati sul mercato del lavoro della scorsa settimana il focus rimane puntato su questa importante variabile economica.
Recentemente i dati americani sono risultati nel complesso al di sotto delle aspettative, come mostra il grafico sotto riportato. Tuttavia a nostro avviso questo è avvenuto più per un aumento delle aspettative a seguito di dati macro più favorevoli che non per un deterioramento delle statistiche recenti. Infatti anche questa settimana il trend sottostante dell’evidenza macroeconomica è risultato favorevole, semplicemente le aspettative si erano posizionate su livelli elevati e quindi si sono verificate delle parziali delusioni.
Settimana ricca di eventi per quanto concerne lo scenario macroeconomico americano, dall’esito nel complesso positivo. Dal fronte dell’economia reale sono da segnalare i dati positivi sugli ordinativi di beni durevoli, che indicano la volontà delle imprese di espandere la quota di risorse da destinare all’investimento.
Il periodo a cavallo d’anno ha visto il proseguimento del trend favorevole per quanto riguarda i dati macro americani. Dall’occupazione sono giunte notizie positive dauna pluralità di indicatori: è proseguito il trend di discesa delle richieste di sussidi di disoccupazione, sono aumentati oltre la soglia dei 200mila i posti di lavoro generati nell’ultimo mese e si è ridotto il tasso di disoccupazione al 8,2%.
Il periodo a cavallo d’anno ha visto il proseguimento del trend favorevole per quanto riguarda i dati macro americani. Dall’occupazione sono giunte notizie positive dauna pluralità di indicatori: è proseguito il trend di discesa delle richieste di sussidi di disoccupazione, sono aumentati oltre la soglia dei 200mila i posti di lavoro generati nell’ultimo mese e si è ridotto il tasso di disoccupazione al 8,2%.
L’esito dei dati macro americani continua ad essere moderatamente favorevole anche se in settimana non vi sono state statistiche che hanno sorpreso positivamente il mercato.
In un contesto internazionale dove le tensioni in Europa e le possibili ricadute a livello mondiale di una recessione nel vecchio continente continuano a dominare la scena, è opportuno comunque segnalare i modesti progressi fatti registrare dall’economia USA.
Le tensioni in Europa continuano ad influenzare la dinamica dei mercati finanziari.
Questa settimana gli avvenimenti politici italiani hanno influenzato in maniera rilavante i principali mercati finanziari, non solo obbligazionari e non solo europei.
Il dato sul PIL americano del terzo trimestre va letto positivamente, non tanto in termini di “quantità” di crescita, dato che il numero effettivo è risultato in linea con le attese, ma in termini di “qualità” delle determinanti il numero aggregato.
In settimana sono state rese note importanti statistiche relative all’economia reale, riguardanti la fiducia degli imprenditori, ma soprattutto le statistiche sul mercato del lavoro.
Settimana molto scarna per quanto riguarda la diffusione di statistiche macroeconomiche. I dati sulla bilancia commerciale e sul livello di fiducia degli imprenditori dei servizi sono risultati leggermente superiori alle attese, corroborando l’aspettativa di un PIL del terzo trimestre non in territorio negativo.
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