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Mentre la pandemia continua a tenere il mondo con il fiato sospeso, lo sguardo degli operatori si sposta via via sempre di più sui temi dell’autunno. Tante sono le incognite, ma all’orizzonte si sta profilando anche un nuovo trend che presenta una dinamica ancora poco esplorata. Parliamo dei prezzi delle materie prime.
Il nuovo trend riguarda l’andamento dei prezzi delle materie prime: con il forte aumento di approvvigionamento nel post-pandemia, oltre al petrolio, le quotazioni di rame, acciaio, ferro, cobalto, legno, plastica ma anche mais, caffè, frumento e soia stanno salendo a livelli da record. La corsa dei prezzi è inasprita anche dai massicci programmi per rilanciare l’economia negli Stati Uniti, in Cina e in Europa. Questi programmi hanno rimesso in moto i cantieri e le fabbriche e stanno portando a un forte boom di domanda.
L’andamento arriva agli indici che vengono monitorati ogni mese e alimenta la paura di un ritorno dell’inflazione e del conseguente possibile inizio di una fase di rialzo dei tassi da parte delle Banche centrali. Gli effetti di questo sviluppo si vedono già sui prezzi alla produzione: in Germania a giugno sono saliti dell’8,5% rispetto all’anno prima, in Spagna del 15,4% e in Italia del 9,6% (dato di maggio). Si tratta di una velocità al rialzo che negli ultimi quattro decenni non era più stata sperimentata e che porta a fare paralleli con gli anni Settanta del secolo scorso.
I prezzi alla produzione sono considerati come un indicatore anticipatore di quelli che sono i valori al consumo e mettono in allarme l’industria e il settore manifatturiero per arrivare fino sul tavolo dei banchieri centrali. Alcuni dei fattori che stanno provocando l’impennata di prezzi sono sicuramente temporanei. Altri invece sono più duraturi. Gli economisti sono ancora divisi su queste analisi mentre gli operatori stanno monitorando attentamente il fenomeno. In ogni caso, il boom dei prezzi delle materie prime, insieme a un mercato del lavoro in Usa che chiede incentivi al rientro e salari più alti, potrebbe imprimere una spinta ulteriore all’inflazione negli Usa, il Paese su cui sono puntati di più gli occhi in questa fase.
É, infatti, agli Stati Uniti che guardano i mercati per capire che cosa succederà alle politiche monetarie decise dalle Banche centrali e se queste continueranno nella propria strategia ultra accomodante del passato. Intanto le attese di inflazione a breve Usa, misurate dall’indagine dell’Università del Michigan, sono salite ai massimi dal 2008 mentre nel mese di giugno l’indice dei prezzi al consumo Usa è aumentato del 5,4% su base annua, ben oltre le attese degli analisti. Si tratta di una situazione che al momento sembra limitarsi solamente agli Stati Uniti ma che, come confermato dalla Banca centrale europea (Bce), potrebbe presto estendersi anche all’Europa.
Nel frattempo la Bce ha già fatto sapere che tollererà un’inflazione sopra al 2%. L’annuncio è tanto più importante perché è arrivato nella prima conferenza stampa dopo la revisione strategica. L’orientamento “colomba” è stato salutato con favore dalle Borse che hanno considerato che ci vorranno almeno 2-3 anni di inflazione al 2% prima che la Bce possa giustificare una posizione di politica monetaria più rigida. Questo anche considerata la ripresa europea che è più lenta.
Per quanto concerne gli acquisti di asset tramite il programma Pepp, questi continueranno ad un “ritmo significativamente più alto” rispetto ai primi mesi dell’anno e dunque daranno più linfa ai listini. Se l’Europa rimane in linea con il passato, occorrerà invece vedere che cosa deciderà la Fed. Tutti gli occhi di Wall Street sono puntati sul tradizionale meeting di Jackson Hole. La discussione è a buon punto all’interno del comitato Fomc, cuore della Fed, sul possibile avvio del tapering, vale a dire la graduale riduzione di acquisti sui mercati. I dibattiti interni continueranno a concentrarsi su tempi, composizione e ritmo del rientro della normalizzazione della politica monetaria Usa. Dai livelli di inflazione potrebbe arrivare nuovo materiale per la discussione e sui piani futuri.
Con il suo leggendario “Whatever it takes”, Mario Draghi è considerato il salvatore dell'euro. La promessa dell'allora Presidente della Banca Centrale Europea di fare tutto il necessario per preservare la moneta unica ha segnato la svolta nella crisi del debito europeo nel 2012.
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