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Pioniere Guido Giubergia, alla guida di Ersel. Alla famiglia Giubergia Bankitala assegnò il patentino numero 1 per la creazione dei fondi comuni di investimento.
Gli italiani sono risparmiatori accaniti, anche se la crisi li ha messi a dura prova. Ma non previdenti. Il distinguo, secondo Guido Giubergia, presidente e amministratore delegato di Ersel, è d’obbligo. «L’Italia è un Paese che non riesce a pianificare a lungo termine: vale per i singoli e, naturalmente, per la politica». Vede segnali di cambiamento?
«Non so. Adesso tutti i dati sono inquinati dalla crisi. Non è un buon momento per fare statistiche». Quelle che riguardano i pochissimi fondi comuni in grado di compiere trent’anni senza soluzione di continuità dicono che, invece, la pazienza finanziaria non sarebbe stata una dote da buttare via. Al gruppo di Giubergia, a cui Banca d’Italia consegnò il cartellino numero uno per l’attività sulle nascenti casse comuni, spetta il primato del fondo più redditizio tra i cinque più longevi. Un fondista che avesse tenuto il bilanciato Fondersel per tre decenni avrebbe portato a casa più dell’8% lordo su base annua, che, al netto dell’inflazione, vale una performance del 4,6%.
Parliamo di possibilità teoriche o tra i vostri clienti storici c’è chi questi rendimenti li ha portati a casa davvero?
«Alcune decine di affezionati che comprarono Fondersel nel 1984 e che non l’hanno mai venduto ci sono davvero. A quell’epoca con mio padre decidemmo di offrire i fondi comuni, strumento nuovissimo, ai nostri clienti che avevano gestioni patrimoniali bilanciate individuali. Ma i super pazienti di Fondersel sono eccezioni: la regola generale, non solo in Italia, dice che le persone non resistono. E’ una questione psicologica: comprano, vendono, cambiano. Scegliendo spesso, lo sappiamo bene, il momento sbagliato per entrare e per uscire dai mercati».
Che cosa c’è dietro al vostro risultato?
«Per onestà intellettuale va detto che nei primissimi anni di attività Fondersel e gli altri fondi pionieri investiti anche in azioni ebbero dalla loro performance eccezionali di Piazza Affari, che faceva anche il 100% l’anno. Per un motivo molto semplice: non si potevano comprare azioni estere. Una sorta di protezionismo, che oggi sarebbe assurdo e che forse lo era anche allora».
L’industria dei fondi è molto cambiata in questi trent’anni. Ha avuto lunghi inverni, oggi macina record di raccolta e di patrimonio. Che cosa ne pensa?
«Vedremo se dura. Quando i mercati vanno bene la gente compra. Penso che i veri vincitori di questo periodo siano le reti e gli indipendenti. Ma i flussi vengono dal fronte bancario. Ora le banche, che controllano l’industria del risparmio in Italia ma anche in Spagna, Francia o Germania, spingono con convinzione lo strumento fondo comune perché non avendo grande domanda di credito non sono particolarmente interessate a fare raccolta con i bond, che invece andavano per la maggiore allo sportello prima della crisi».
Tra pochi mesi la tassazione sulle rendite finanziarie, e quindi anche sui proventi dei fondi salirà dal 20 al 26%. I gestori italiani provano di nuovo a chiedere al governo il varo di strumenti di pianificazione finanziaria con aliquote agevolate. Ci si può arrivare?
«Mi sembra difficile: sarebbe una bella cosa. Nei Paesi dove esistono strumenti di questo tipo il risparmio paziente viene molto incoraggiato. Purtroppo siamo ancora in emergenza: far quadrare i conti è la prima necessità e si sta tentando di abbassare la tassazione sul lavoro a scapito di quella sui risparmi».
Condivide oppure no?
«Il principio può essere giusto. Trovo però inaccettabile il fatto che la tassazione sui titoli di Stato resti al 12,5%. E anche il fatto che in meno di due anni le aliquote abbiano avuto due bruschi rialzi che alla fine, contando pure la mini-patrimoniale, ci portano ad avere un’aliquota al di sopra della media europea».
E’ vero che i fondi italiani sono cari?
«Forse sì. Più concorrenza sul lato della distribuzione aiuterebbe a tagliare le commissioni».
L’industria italiana regge il confronto europeo?
«Sì. I nostri gestori sono mediamente preparati e, in quanto a regole, non esiste strumento più trasparente del fondo. Impossibile utilizzarli in modo opaco: di questo sono convinto».
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