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L’industria del risparmio vuole rendere più accessibili i private market, in passato prerogativa degli investitori istituzionali. Ma l’offerta deve essere adeguata, spiega Andrea Nascé, direttore financial advisory di Ersel. E restano alcune criticità da non sottovalutare.
La desertificazione dei rendimenti nel mondo obbligazionario, da un lato. Vedi i 12.400 miliardi di bond a tassi sotto lo zero su scala globale. L’enfasi sulla trasparenza dall’altro lato, generata da Mifid2 e dalle nuove regole sugli strumenti dei mercati finanziari, che portano a una compressione dei costi. Stretta tra questi due fuochi, l’industria del risparmio assiste a una polarizzazione: aumentano le masse verso gli strumenti passivi, che replicano la dinamica del mercato in modo efficiente, senza pretese di battere i listini.
Ma guadagnano spazio anche le soluzioni in grado di generare valore, nell’ambito della gestione attiva. Un esempio? “Gli investimenti alternativi in generale, e i private market in particolare”, spiega Andrea Nascé, direttore financial advisory di Ersel. Che invita, però a non banalizzare troppo la natura e la complessità di questi strumenti. “Storicamente si tratta di soluzioni frequentate da operatori istituzionali, pensiamo alle fondazioni e agli enti che gestiscono gli endowment (il patrimonio finanziario delle grandi università, in larga parte frutto di donazioni ndr). Renderli accessibili anche al private banking è una missione, che presenta delle criticità”.
Quali?
Gli strumenti illiquidi mostrano alcune complessità tecniche, procedurali e amministrative. Gestire, ad esempio, la sequenza di richiami (i versamenti da parte dei sottoscrittori che in fase di raccolta si sono impegnati a partecipare all’investimento ndr) può essere particolarmente oneroso se la platea degli investitori si allarga in modo rilevante. Accompagnare le famiglie private alla scoperta dei private market è una sfida interessante, che impone però un adeguamento dell’offerta. Per gli strumenti di fascia alta, questa semplificazione non deve superare certi limiti se non si vuole snaturare lo strumento. Altrimenti il rischio è che i rendimenti attesi finiscano per annacquarsi.
Quali sono le attese di rendimento?
Storicamente, nel mondo del private equity nella forma “pura”, si sono ottenuti ritorni medi di settore attorno al 13% annuo, con estremi tra l’8% e il 22%, a seconda del vintage (annata di inizio dei fondi ndr). Nel private debt ci sono delle nicchie che ancora oggi possono consegnare oltre il 10%. La dispersione dei risultati per ciascun vintage però è molto ampia in tutti i private market. Proprio per questo servono competenze di alto profilo per selezionare i team di gestione più performanti.
Che tipo di consulenza offrite in questo ambito?
Da 10 anni il nostro ufficio di Londra, di cui sono stato responsabile fino all’inizio del 2019, seleziona opportunità d’investimento nei private market per la clientela istituzionale e hnwi. Possiamo vantare un buon network, filtriamo le idee e approfondiamo la nostra due diligence sulle iniziative più promettenti.
Che ruolo possono avere i mercati privati nei portafogli della clientela private?
Ancillare, di completamento, nell’ottica della diversificazione. Parliamo di asset sostanzialmente illiquidi che richiedono un orizzonte di lungo termine. Occorre fare un lavoro importante anche in termini di educazione finanziaria. Un conto è relazionarsi con un investitore istituzionale, che di norma è preparato, conosce i mercati privati, li frequenta abitualmente e ne conosce il profilo di rischio. Un altro affrontare questo tema con un cliente private, che non è avvezzo a un certo linguaggio, non ha esperienza e magari si trova a fare i conti con la sua prima operazione. Occorre investire molto sulla comunicazione, spiegare bene le caratteristiche di questi strumenti. Altrimenti il rischio è di sciupare una bella occasione, ovvero quella di aprire anche alla clientela private opportunità che tradizionalmente le erano precluse, generando malintesi e aspettative che poi potrebbero essere deluse.
Qual è il ruolo degli intermediari?
Noi sosteniamo la distribuzione attraverso un’intensa attività formativa e un adeguato supporto informativo, che aiutano i banker a fare bene il proprio lavoro.
Fatto 100 il patrimonio gestito da Ersel, quanti asset sono investiti nei private market?
Ad oggi sotto il 10%. Nel 2019 abbiamo partecipato con la nostra clientela al primo importante progetto eltif portato da Muzinich sul mercato italiano del private banking. Da qualche mese stiamo lavorando con Fondaco – di cui Ersel è storico socio fondatore – per una nuova iniziativa sul private equity, con obiettivo di raccolta nell’ordine dei 150 milioni di euro. Nel frattempo, stiamo valutando nuove iniziative nel private debt da portare sul mercato nel corso del 2020.
Il mercato degli eltif è partito con una certa lentezza, anche per un disallineamento dei benefici fiscali rispetto ad altri strumenti…
Rappresentano però una grande opportunità, perché favoriscono concretamente l’investimento diretto nell’economia reale. Ricordo che in Italia ci sono oltre 170mila piccole e medie imprese con un numero di addetti compreso tra 10 e 50 unità, l’88% del bacino complessivo delle pmi. L’incidenza del fatturato delle small & medium enterprise sul totale è del 68% nel nostro Paese, il 55% in Europa. E si tratta di aziende che in molti casi hanno sete di capitali, in una fase che vede il canale bancario tradizionale disimpegnarsi sul fronte dei finanziamenti a medio-lungo termine. La struttura chiusa degli eltif consente di dare stabilità alle risorse finanziarie, aprendo le aziende ad orizzonti progettuali di lungo termine. Al tempo stesso, questi strumenti stimolano nuove quotazioni sui segmenti minori di Borsa, perché danno alle imprese la prospettiva di incontrare stabili investitori “naturali”. Risultato: incoraggiano a monte l’attività di incubatori e business angel nella ricerca di una exit strategy. E a valle lo sviluppo di fondi comuni specializzati nelle pmi.
Alla fine i private market sono una risposta efficace ai mini-rendimenti dell’universo obbligazionario?
Sì, ma richiedono un adeguato percorso di accompagnamento.
I mercati finanziari non possono crescere all'infinito. Partendo da questo assunto, bisogna constatare però che le Borse continuano a salire, toccando valori quest'anno che «sembravano irraggiungibili», di fronte alle incertezze globali, alle tensioni geopolitiche e, più di recente, alle elezioni americane. Questo mostra, ora più che mai, «uno scollamento» con la realtà. Ne parla Guido Giubergia, Presidente di Ersel, a Il Sole 24ORE.
Passione per l'imprenditorialità e collegamento immediato tra investimenti ed economia reale sono le motivazioni principali che indirizzano le grandi famiglie italiane e i family office verso strumenti come i club deal. Andrea Rotti, Amministratore Delegato Ersel, ne parla a Il Sole 24ORE.
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